mercoledì 30 settembre 2009
Un esempio di “piccola storia” censurata
Vercelli, 7 maggio 1945, via Riccardo Restano 64. La famiglia Scalfi è radunata a casa e ancora non sa che di lì a poco sarà sterminata da una banda di partigiani comunisti che, lo si saprà poi in un secondo tempo, copriranno l'eccidio con il pretesto della “liberazione”. Uno dei tanti casi di vendetta privata nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile.
Anche per questa truculenta vicenda infatti scopo della strage sarà null'altro che un'annunciata denuncia per via di un furto di polli promessa dalla vittima Luigi Bonzanini, al suo carnefice Felice Starda: almeno questo sarà ciò che si dirà essere stato il probabile movente. I fatti si svolsero comunque in un'allucinate sequenza quella sera stessa; un'auto con a bordo alcuni partigiani si fermò infatti in via Restano mentre almeno un paio di loro scesero. Entrando nell'abitazione i medesimi si trovarono così di fronte ad Elsa Scalfi di 16 anni e Laura Scalfi di 21 che non esitarono ad eliminare con una mitraglia, proprio come fecero anche con Luigi Bonzanini: scomoda testimone di quella mattanza la paralitica quasi settantenne Luigia Meroni.
Distrutta la famiglia i partigiani presero quindi la strada della fuga per però tornare di lì a poco in quanto la paralitica avrebbe potuto raccontare i fatti facendo così nomi e cognomi: eliminarono perciò anche lei, con ferocia e senza pensarci ulteriormente. La vicenda fece naturalmente scalpore, ma nessuno osò nè fare nè dire nulla perchè così era costume di quei giorni dell'immediato dopoguerra. Qualcosa però in quella tragica sequenza di fatti prese una piega storta, tanto che Felice Starda fu assassinato da ignoti solo qualche giorno dopo: si tentò di far credere che ciò fosse stata opera di un cecchino fascista, ma quella versione non convinse nessuno. Fu ad ogni modo un fatto che il nome dello Starda facesse bella mostra di sè al mausoleo degli “eroi della Resistenza” nel cimitero di Vercelli, e ciò per decenni, mentre in realtà sotterraneamente si diceva e si sapeva trattarsi null'altro che di un assassino. Certamente non l'unico incluso in qualche analogo mausoleo.
Così che un coraggioso ricercatore locale antifascista Giuseppe Crosio cominciò negli anni '90 a porre per iscritto alcuni quesiti relativi a quella vicenda; a lui fece quindi eco un giornalista della Stampa, Enrico De Maria, che insieme a chi scrive prese a cuore la vicenda sollevando ulteriori dubbi ed interrogativi. Sta di fatto che dopo una lunga serie di “non sapevamo” o “non pensavamo”, un bel giorno il nome di Starda venne rimosso dal mausoleo partigiano del cimitero vercellese con il discreto silenzio di tutta la stampa che invece forse avrebbe dovuto dare più risalto a tale notizia: non è infatti cosa da tutti i giorni rimuovere il nome di un “eroe” per occultarne tanto la memoria quanto i resti mortali. Un bel giorno di un fresco febbraio comunque ci recammo in via Restano per visitare il teatro della tragedia dimenticata, ma una sconcertante sorpresa ci avrebbe atteso: la casa infatti lascia oggi spazio ad un piccolo parcheggio sito tra una teoria di case che curiosamente si interrompe proprio in corrispondenza del numero 64: in breve, la casa è sparita, svanita nel nulla. Facile intuire quel che può essere successo. Comunque attoniti per la scoperta, una telefonata al giornalista De Maria fugava ogni dubbio: “No, la casa non c'è più. Io stesso qualche tempo fa la cercai e trovai il vuoto che tu vedi ora”.
Una casa di fantasmi quindi o meglio, un vuoto sconcertante che dimostra concretamente fino a che punto può portare il dolore dei superstiti di una famiglia sterminata, provati da un'assurda strage senza un perchè. Non c'entrano infatti guerra o resistenza, non c'entrano politica o presunti reati analoghi, si trattò invece soltanto di un feroce eccidio dettato esclusivamente dall'odio coperto da presunte pretese politiche, forse legato alla certezza dell'impunità. Fatto curioso che solo a pochi metri dal luogo della strage esista una lapide che ricorda, sul frontespizio del mattatoio civico, il martirio di quattro partigiani morti per la libertà d'Italia. Della famiglia Scalfi e soprattutto delle due giovanissime ragazze invece nemmeno una parola: sono cose che generano amarezza e danno da pensare. L'esecutore materiale della strage, Felice Starda, fu comunque ancora difeso da un suo commilitone che dopo la rimozione delle sue spoglie dal mausoleo scrisse una lettera ai giornali, affermando che lo Starda a suo modo di vedere – già che lui lo conosceva bene – non avrebbe agito di sua iniziativa, bensì forse comandato: sia come sia il fatto resta torbido, e anzi, in una simile possibile prospettiva dei fatti lo sarebbe ancora di più. Strano che il partigiano non si sia reso conto dell'enormità delle sue inedite affermazioni.
Resta comunque alla fine di tutta questa triste vicenda lo sconcerto di un'assurda tragedia che ha eliminato un'intera famiglia e che oggi non trova nemmeno più concretezza in un muro per ricordare quella strage. Per questa ragione scriverne diventa un dovere morale, affinchè a futura memoria si ricordi anche questa storia legata ad un'altra “resistenza”, quella di cui oggi ancora troppo poco e male si parla.
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